Cercando la cima delle montagne per apprezzare le ombre.

Dall’alto, piccoli e inifiniti, gli spazi.

SECONDA PARTE

La sveglia suona. Basta uno squillo per farci scattare. Dolori lancinanti mi pervadono la schiena e le gambe. Le smorfie di Tom dicono la stessa cosa.

“Buongiorno!”

“Buongiorno amico!”

L’oscurità è ancora assoluta. Lo zaino è pronto con il minimo indispensabile. Il casco è ben stretto, amico di tanti respiri sulla roccia. L’adrenalina e quella tensione tipica delle sfide mi stringono lo stomaco ma riesco a bere un tè e a mangiare qualche biscotto mentre fisso nel profondo quello spettacolo di crepe e alberi.

Siamo pronti.

I primi passi sono pesanti.

Ricordo questo spettacolare avvicinamento lungo il versante ripidissimo cosparso di massi enormi da risalire abbracciandoli con le mani. La torcia illumina solo l’essenziale, le prese, i piedi e le forme che ci circondano. Quando mi volto vedo la strada in fondo alla scarpata. Ci guidano segni di vernice sbiaditi e qualche omino di sassi impilati. L’importante è salire il resto non conta. Siamo silenziosi persi nei pensieri di una notte insonne. Il sogno è iniziato ora, quello intimo e profondo. Non serve più parlare perché ogni passo ci sta raccontando qualcosa.

Ecco il ferro, la catena, la targa d’inizio, i pioli di metallo d’afferrare per spingersi verso l’alto. Ci siamo, iniziamo! I moschettoni si aprono e si chiudono stringendo saldamente la catena che vibra.

Non si torna più indietro, guardare solo in alto e salire.

“Vuoi andare prima tu?” mi domanda Tom sorridendo.

“Lo sai come funziona” rispondo con un sorriso scaltro. Ogni volta la stessa paura che mi segue. Ci tengo a ringraziarla, spero che non mi abbandoni mai perché è una compagna di viaggio eccezionale, è quella che produce il desiderio inspiegabile di vivere.

Tom inizia la scalata. Mi volto e il giorno in arrivo ha iniziato a dipingere la terra.

Scrivo e cancello già da tempo questa parte perché non trovo le parole per descrivere le emozioni provata d’adesso in poi. Noi lì, appesi ad una montagna, superando balzi rocciosi dalla complessa lettura, inserendo le mani in fessure profonde o alzandoci di peso in piccole cenge strapiombanti. Sotto di noi chiome di alberi immobili dai colori ancora autunnali, qualche larice si distingue isolato. Attorno a noi gli altri versanti che compongono le vallate degli appennini. A sinistra la sagoma precisa e netta del monte Cimone, poco oltre la sella del Cusna. Tutto ciò avvolto dalla luce dell’aurora, dal suo azzurro fantasma che pian piano si trasforma in calore, in rosso e infine in luce viva. Questa è la magia dell’alba, il risveglio del mondo giorno dopo giorno. Sopra di noi questa dannata roccia che adoro e che tocco sfiorandone la superfice con il palmo della mano sudato. Ci fermiamo per ammirare questa meraviglia.

Continuiamo a salire attendendo la “Pancia di Ivano”. Per chi non lo sapesse, la così detta pancia di Ivano, non è altro che il passaggio chiave della via. Un tratto di una decina di metri strapiombante, descritto in ogni relazione come passaggio estremamente difficile che richiede una duratura trazione al cavo con le braccia e una velocità di movimenti con i piedi per “togliere letteralmente il culo” da quella sezione sul vuoto il prima possibile. Il nome Ivano deriva da un video visto in rete, dove Ivano, uno sfortunato escursionista, è stato ripreso mentre vola proprio su questa pancia.

Ricordo bene quando è comparsa davanti ai nostri occhi.

Analizziamo bene i vari elementi. Da lì sotto si nota immediatamente la sua complessità. Ovviamente Tom si fa avanti. Risale i primi metri appoggiandosi ad una staffa con il piede e equilibrandosi con la mano sulla parete al lato. Di colpo si blocca e vedo che ondeggia lo zaino prima a destra poi a sinistra.

“woooo” grida.

Con la mano destra si stringe forte ad una staffa infissa poco più in alto per equilibrarsi.

“Mi sono sbilanciato. Qua bisogna andare su senza pensare NiK”, mentre annuncia ciò inizia a sollevarsi aggrappandosi con forza alle staffe. La fatica si sente dal respiro e dal silenzio colorato di quest’alba. Il vento completamente assente aumenta la tensione nell’aria. In due movimenti si ritrova appeso sotto la pancia. Sospira a lungo poi si spinge, si solleva con le braccia, alza i piedi cercando un piolo che trova sotto il ginocchio. Sempre sospirando dalla fatica effettua il cambio moschettoni rapido e forzato. Ora sbuffa: “Mi si stanno cuocendo le braccia!” poi ride dall’adrenalina. Con un altro movimento alza ancora le gambe e poi le braccia. D’un tratto è su, la sua testa scompare dietro la Pancia, sento i moschettoni che si aprono e si chiudono un’altra volta superato il fittone. C’è l’ha fatta.

“Sono su Nic! Che fatica, Devi spingere come un matto!” grida dall’alto.

Adesso ci sono io sotto, solo nella solitudine della montagna. Adesso che scrivo mi sudano ancora le mani; lì, appollaiato su quella cengia mentre mi preparo a quel passaggio i guanti scivolano sulla pelle e le gambe mi tremano. Respiro a fondo. -È solo un passaggio-, mi dico. Respiro ancora qualche interminabile secondo. Poi parto, l’aria si rompe in frantumi.

Piede! piede! Via spingere verso l’alto cercando delle mani. Eccole, una staffa e una corchia nella roccia. Stringo le prese come se dovessi romperle. Cerco di non fermarmi e continuo a salire, spingo con le gambe finché non tremano, mi aggrappo più che posso ad un’altra staffa fino a sentire i polsi che tendono.

Noto come l’inclinazione aumenti ad ogni passaggio, tra poco sarò sotto lo strapiombo.

Tom mi incita indicandomi qualcosa ma non rispondo, sospiro a lungo mi aggrappo ai pioli successivi e via mi alzo spingendo più possibile con le gambe e meno con le braccia. Ecco che sento tutto il peso che grava nel vuoto sotto di me. Senza pensare lascio una mano e velocemente effettuo il cambio moschettoni, trattengo il respiro. È questo il momento di massima tensione. Il peso aggredisce le cinque dita della mano destra strette al piolo mentre la sinistra afferra il moschettone. Il primo scorre bene e supera il fittone. Il secondo fa attrito con la roccia, gemo dalla fatica, sospiro profondamente, mi sbilancio all’indietro pur di poter premere con più forza.

All’improvviso un “clic” sordo. È fatta, posso salire. Quasi in un balzo mi spingo verso l’alto liberando le mani. Alzo i piedi e trovo subito una bella presa, una vasca profonda nella roccia, nella quale affondo il braccio intero. Mi sollevo fino quasi a sedermi sul terrazzo di roccia.

Sorrido mentre sento il peso scivolare giù dalle braccia come se stessi fluttuando sulla luna. Adesso sorridiamo entrambi. Tom stringe la sua mano alla mia, sudata e tremante. La vista è uno specchio per l’emozione che provo dentro!

I passaggi continuano duri e le braccia sono stanche ma spingiamo più possibile con le gambe posizionandole in ogni piccola fessura. Le curve della roccia sono sempre più basse e disomogenee, lo spazio attorno a noi si apre in un versante scosceso. Superiamo altri due balzi rocciosi circondati da alberi di quota. Ed eccola, la vetta del monte Penna.

Il libro-vetta è pronto per essere segnato. Sicuramente siamo i primi del giorno e chissà chi saranno i prossimi. Proprio in questi secondi il sole, vivo, pulsante e dal calore inspiegabile sbuca dalle montagne in lontananza e sale nel cielo dando vita ai colori accesi e brillanti di questa stagione.

Sulla pagina del libro scrivo così:

“A tutti è concesso il tramonto ma solo a pochi è concessa l’alba.
Solo a noi due è concesso il risveglio del mondo dalla vetta di questa montagna.
Mentre il sole sale noi torniamo giù.”

La prima vetta è stata presa, in sun silenzio leggero, senza bisogno di riempirlo con parole scendiamo lungo il sentiero di uscita. Il sole si frammenta in mille raggi tra i tronchi e le fronde dei faggi.

Poco distante ci attende la seconda ferrata. Giù lungo le sponde del fiume Dolo rumoroso e minaccioso si apre la verticale salita del “Barranco”.

Il sole è sorto alto nel cielo.

Noi di nuovo ad osservare il mondo dall’alto mentre lentamente inizia a svegliarsi.

Foto della salita “ferrata del Barranco del Dolo (civago)

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